La scrittura come rito religioso


(Jamaica Plain, Boston, 27 ottobre 1932 - North Tawton, Devon, 11 febbraio 1963)
“I poeti che amo sono posseduti dai loro versi come dal ritmo stesso del loro respiro” Sylvia Plath

 Sei giorni dopo, un biglietto appuntato alla carrozzina del figlio: “Per favore, chiamate il dottor Horder”. A trovarlo, la mattina, è il vicino di casa di Sylvia.
Nelle prime ore dell'11 febbraio Sylvia Plath posa accanto ai lettini dei bambini pane e latte, apre la finestra della loro camera e sigilla le fessure della porta con nastro adesivo e asciugamani bagnati. Anche in cucina sigilla tutte le fessure.
Addormentata con la testa nel forno, la guancia appoggiata a un tovagliolo, il gas aperto. Così si presenta la scena della morte di Sylvia Plath, una scena da lei stessa costruita, lucidamente, per non lasciare nulla al caso.

La scrittura è un rito religioso: è un ordine, una riforma, una rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere. Una creazione che non svanisce come una giornata alla macchina da scrivere o in cattedra. La scrittura resta: va sola per il mondo.”

Edge (Limite) è l'ultima poesia scritta da Sylvia prima della sua morte, a soli trentuno anni. Edge significa anche orlo, ciglio, bordo, confine, filo di lama, vantaggio. Ultimo componimento di una vita dedicata alla scrittura, al difficile esperimento di far coincidere la letteratura con la vita, alla ricerca di uno spazio in cui non fosse tanto difficile vivere e in cui la poesia, la sua poesia, fosse accettata, letta, pubblicata e riconosciuta senza generare il dolore profondo che la perseguitava senza tregua.

Voglio scrivere perché ho bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione della vita. [...] La scrittura è necessaria alla sopravvivenza del mio spocchioso equilibrio come il pane per il corpo. [...] Ho bisogno di scrivere e di esplorare le profonde miniere dell’esperienza e dell’immaginazione, far uscire le parole che, esaminandosi, diranno tutto...



LIMITE

La donna ora è perfetta.
Il suo corpo

morto ha il sorriso della compiutezza,
l’illusione di una necessità greca

fluisce nei volumi della sua toga,
i suoi piedi

nudi sembrano dire:
Siamo arrivati fin qui, è finita.

I bambini morti si sono acciambellati,
ciascuno, bianco serpente,

presso la sua piccola brocca di latte, ora vuota.
Lei li ha raccolti

di nuovo nel suo corpo come i petali
di una rosa si chiudono quando il giardino

s’irrigidisce e sanguinano i profumi
dalle dolci gole profonde del fiore notturno.

La luna, spettatrice nel suo cappuccio d’osso,
non ha motivo di essere triste.

È abituata a queste cose.
I suoi neri crepitano e tirano.

(5 febbraio 1963)


Sylvia nasce nel 1932, in un sobborgo di Boston, da genitori europei. All’età di ventuno anni tenta il suicidio, in seguito a una profonda depressione causata dal fatto di non essere stata ammessa a un corso di scrittura al quale teneva in modo particolare. Dopo essere stata in clinica, vince alcuni premi per le sue poesie e le viene concessa una borsa di studio di due anni per il Newnham College dell’Università di Cambridge.
A Cambridge incontra Ted Hughes, poeta, del quale si innamora e dal quale avrà due bambini. Ted e Sylvia si separano qualche mese prima del suicidio di Sylvia.
Il foglio bianco era, per Sylvia, fonte di angoscia, qualcosa da riempire, colmare, far urlare, uno spazio vuoto su cui incidere le emozioni, il tempo e i pensieri.
Sylvia “butta l’amo della parola e pesca immagini e sentimenti”, ma la sua attività poetica è sempre stata un terreno delicato che le generava gioia e allo stesso tempo insoddisfazione, incompletezza.
E la frustrazione causata da questa sua imperfezione la gettava in stati di profonda depressione e violenza, soprattutto verbale, di cui ci testimoniano sia il marito, sia le pagine non censurate del suo diario. Sylvia Plath era attratta dalla perfezione fino al disumano, voleva essere perfetta.
Lo stesso Ted Hughes, parlando di lei, afferma: “Era determinata all’eccellenza. In nessun aspetto della vita permetteva a se stessa di essere trascurata o inadeguata; in tutti voleva eccellere, in tutto aveva bisogno di perfezione. Soprattutto in poesia. Dietro alle sue poesie c’è una natura umana fiera, senza compromessi; c’è anche una bambina infatuata del mondo.
La scrittura è la sua chance, la difesa che Sylvia adotta contro la paura di impazzire, il cappello da cui estrae risposte e parole che alleviano il dolore delle contraddizioni che derivano dall’incontro della sua vita pratica con le sue aspirazioni poetiche.

“Oggi molto depressa. Incapace di scrivere alcunché. Dèi minacciosi. Mi sento esiliata su una stella fredda. [...] Sono già morta.”

Lo si comprende sia leggendo le sue poesie sia, ancora meglio e in modo più esplicito, le sue pagine di diario che ci si presentano come percorso interiore, emotivo e intellettuale di un’artista e di una donna che nello spazio intimo delle sue confessioni private cercava di trovare la sua identità, il suo Io puro, autentico.

Sono un groviglio di nervi senza identità. Ora so cos’è la solitudine, credo. Parte da un punto indefinito dell’Io: come una malattia del sangue che si diffonde in tutto il corpo sicché non si può localizzarne il focolaio. [...] Non ho consistenza, sono vuota, dietro gli occhi sento una caverna pietrificata, un abisso infernale.

Dalle pagine del suo diario si può evincere tutta la complessità di una vita che ha condotto una lotta tutta interna con le armi delle parole, che non si risparmia in giudizi e autocritiche, che cerca di far coincidere tutti i lati del puzzle per non perdersi nella confusione in cui è in grado di gettare il quotidiano.
Sylvia ha un rapporto privilegiato con la morte, dialoga con lei, ne è affascinata, la corteggia in una sensuale danza di parole.

Come un gatto ho nove vite da morire. Questa è la numero tre. La prima volta successe che avevi dieci anni. Fu un incidente. Ma la seconda volta ero decisa a insistere, a non recedere assolutamente. Mi dondolavo chiusa come conchiglia. Dovettero chiamare e chiamare e staccarmi via i vermi come perle appiccicose. Morire è un’arte, come ogni altra cosa. Io lo faccio in un modo eccezionale. Io lo faccio che sembra come un inferno. Io lo faccio che sembra reale. Ammetterete che ho la vocazione.

Le opere di Sylvia Plath sono state pubblicate quasi tutte postume, eccetto la raccolta The Colossus e il romanzo La campana di vetro. Per quanto riguarda i diari, che Sylvia ha iniziato a scrivere all’età di undici anni, a Ted Hughes viene chiesto di selezionarne una parte per la pubblicazione. Il poeta inglese, al momento della morte di Sylvia, aveva bruciato l’ultimo quaderno dei diari per evitare che i figli lo leggessero e aveva fatto mettere sotto sigillo le parti che riteneva più scabrose e violente.
Quindi l’immagine che ci si può fare di Sylvia Plath è in qualche modo “decisa a priori”, è un’immagine scelta da qualcun altro. Credo, però, che c’è sempre un momento in cui ci si imbatte, più per caso che per scelta, nella vischiosa tela che è la vita di un altro essere umano. La sua natura è fatta di fili sottili che si intersecano, la cui materia e le cui proporzioni variano da individuo a individuo: parole scritte, cancellate, strappate, urlate, soffocate, digrignate, parole di silenzio ed eco lontane che ci raggiungono quando meno siamo pronti ad ascoltarle. Così accade, soprattutto per i poeti, per le linee confuse delle loro mani, per le loro vite in costante e precario disequilibrio, per tutte quelle esistenze che tentano di conciliare il cielo con la carne. Così accade per Sylvia, se ci si avvicina a lei scevri da pregiudizi e categorie psicoanalitiche. Accade così che si può venire travolti dalla musica delle sue parole accostate, dal ritmo simile al respiro, dalla gioia di camminare su una nuova terra, dal terrore di affogare nell'abisso di una poesia.

SONO VERTICALE

Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con la radice nel suolo
che succhia minerali e amore materno
per poter brillare di foglie ogni marzo,
e nemmeno sono la bella di un’aiola
che attira la sua parte di Ooh, dipinta di colori stupendi,
ignara di dover presto sfiorire.
In confronto a me un albero è immortale,
la corolla di un fiore non alta, ma più sorprendente,
e a me manca la longevità dell’uno e l’audacia dell’altra.

Questa notte, sotto l’infinitesima luce delle stelle,
alberi e fiori vanno spargendo i loro freschi profumi.
Cammino in mezzo a loro, ma nessuno mi nota.
A volte penso che è quando dormo
che assomiglio loro più perfettamente -
i pensieri offuscati.
L’essere distesa mi è più naturale.
Allora c’è aperto colloquio tra il cielo e me
e sarò utile quando sarò distesa per sempre:
forse allora gli alberi mi toccheranno e i fiori avranno
tempo per me.

(28 marzo 1961)

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