Sylvia Plath e le Poesie alla madre:Le muse inquietanti
Mamma, mamma, quale zia maleducata
o cugina sfigurata e repellente
dimenticasti cosi sconsideratamente
d'invitare al mio battesimo, che quella
al posto suo mandò queste signore
dalla testa come un uovo da rammendo,
per dondolarla e dondolarla ai piedi,
al capo e a sinistra della culla?
Mamma, tu che su ordinazione inventavi le avventure
di Mixie Blackshort, l'orsetto coraggioso,
mamma, tu le cui streghe sempre sempre
finivano cotte in forno insieme al panpepato,
chissà se le hai viste, se hai detto parole
per liberarmi da quelle tre signore
che annuivano di notte intomo al letto,
senza bocca, senz'occhi, la testa calva tutta toppe?
Quando ci fu l'uragano e nello studio
di papà s'incurvarono le dodici finestre
come bolle prossime a scoppiare, tu preparasti
a mio fratello e a me biscotti e Ovomaltina
e ci insegnasti a cantare tutti in coro:
"Thor è arrabbiato: bum bum bum!
Thor è arrabbiato: che ce ne importa?"
Ma quelle signore ruppero le vetrate.
Quando a scuola le bambine eseguirono la danza
sulle punte e facendo lampeggiare le pile
cantarono la canzone delta lucciola, io non riuscivo
a muovere un piede nella mia veste coi lustrini
ma me ne stavo in disparte, goffa,
nell'ombra gettata dalle mie madrine
dalla lugubre testa, e tu piangevi, piangevi,
e l'ombra si allungò, si spensero le luci.
Mamma, mi mandavi a lezione di piano
e lodavi i miei trilli e arabeschi,
benché tutte le maestre giudicassero il mio tocco
stranamente legnoso nonostante le scale
e le ore di esercizio, e il mio orecchio
stonato e, sì refrattario alle lezioni.
Ho imparato, ho imparato, ho imparato altrove,
da muse non assunte da te, mamma cara.
Un giomo mi sono svegliata e ti ho vista, mamma,
che galleggiavi nell'azzurro più azzurro
su una mongolfiera verde coperta di un milione
di fiori e uccellini azzurri che mai mai
si videro, in nessun luogo mai.
Ma il piccolo pianeta volò via saltellando
come una bolla di sapone mentre tu gridavi: "Vieni, vieni!".
E io restai sola davanti alle mie compagne di viaggio.
Giomo e notte ora, al mio capo, al fianco, ai piedi,
stanno a veglia con vesti di pietra,
le facce vuote come il giomo in cui nacqui,
le ombre lunghe nel sole calante
che mai splende più vivo e mai tramonta.
E questo è il regno a cui mi hai portato,
mamma, mamma. Ma nessuna espressione del mio viso
tradirà la compagnia che frequento.
(trad. Anna Ravano)
Si tratta di una poesia del marzo 1958, pubblicata nella prima raccolta (e l'unica non postuma) della Plath, Il Colosso (1960). Fa parte di una serie di testi ispirati ai quadri di Klee, Henri Rousseau e de Chirico. Con le atmosfere straniate e perturbanti di quest'ultimo la Plath sente una particolare affinità almeno fin dagli anni universitari.
Parlando di questa poesia nel corso di una lettura radiofonica fatta per la BBC, la Plath dice, "Per tutta la poesia ho in mente le figure enigmatiche di questo quadro: tre terribili manichini da sarta senza faccia, vestiti in abbigliamento classico, seduti o in piedi e immersi in una luminosità strana che proietta le lunghe ombre nette tipiche delle primo de Chirico. Fanno pensare a una versione novecentesca di altri sinistri terzetti femminili: le tre Parche, le streghe del Macbeth, le sorelle della follia di de Quincey".
La poesia costituisce un atto di accusa contro la madre, che viene incolpata per avere ignorato i terrori che dominano l'inconscio della scrittrice. Come le cattive fate al battesimo, questi terrori sono i compagni di vita più intimi, di cui la madre, lontana dalla realtà della figlia turbata, non vuole ammettere l'esistenza. Nel corso del testo vengono tessuti insieme ricordi dell'infanzia, echi di antiche ballate ("E questo è il regno a cui mi hai portato, mamma, mamma") e la classica fiaba a lieto fine, qui ironicamente capovolto.
La figura vista nel quadro di de Chirico della testa ovale liscia e luminosa diverrà ricorrente nella poesia della Plath, fondendosi talvolta con quella dell'infermieria calva, talvolta con quella "di volta in volta muta, selvaggia, calva, materna, petrosa della musa-luna"
(A. Ravano, Silvia Plath, Opere, I Meridiani).
The disquieting muses
Mother, mother, what ill-bred aunt
Or what disfigured and unsightly
Cousin did you so unwisely keep
Unasked to my christening, that she
Sent these ladies in her stead
With heads like darning-eggs to nod
And nod and nod at foot and head
And at the left side of my crib?
Mother, who made to order stories
Of Mixie Blackshort the heroic bear,
Mother, whose witches always, always
Got baked into gingerbread, I wonder
Whether you saw them, whether you said
Words to rid me of those three ladies
Nodding by night around my bed,
Mouthless, eyeless, with stitched bald head.
In the hurricane, when father's twelve
Study windows bellied in
Like bubbles about to break, you fed
My brother and me cookies and Ovaltine
And helped the two of us to choir:
'Thor is angry; boom boom boom!
Thor is angry: we don't care!'
But those ladies broke the panes.
When on tiptoe the schoolgirls danced,
Blinking flashlights like fireflies
And singing the glowworm song, I could
Not lift a foot in the twinkle-dress
But, heavy-footed, stood aside
In the shadow cast by my dismal-headed
Godmothers, and you cried and cried:
And the shadow stretched, the lights went out.
Mother, you sent me to piano lessons
And praised my arabesques and trills
Although each teacher found my touch
Oddly wooden in spite of scales
And the hours of practicing, my ear
Tone-deaf and yes, unteachable.
I learned, I learned, I learned elsewhere,
From muses unhired by you, dear mother.
I woke one day to see you, mother,
Floating above me in bluest air
On a green balloon bright with a million
Flowers and bluebirds that never were
Never, never, found anywhere.
But the little planet bobbed away
Like a soap-bubble as you called: Come here!
And I faced my traveling companions.
Day now, night now, at head, side, feet,
They stand their vigil in gowns of stone,
Faces blank as the day I was born.
Their shadows long in the setting sun
That never brightens or goes down.
And this is the kingdom you bore me to,
Mother, mother. But no frown of mine
Will betray the company I keep.
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