Sylvia Plath: il sorriso fragile della poesia
Nulla si toglie alla fascinazione della poesia di Sylvia Plath, dicendo che essa si intreccia in maniera inestricabile con la sua biografia. E pesano davvero quegli anni segnati dalle ombre della depressione e dell'ossessione, e all'insegna di una voluttà di morte che culmina nel minuzioso rituale del suicidio. Londra, 11 febbraio 1963: Sylvia infila la testa nel forno a gas, dopo aver preparato per i due piccolissimi figli - Frieda e Nicholas - pane, burro e latte, poggiato i piattini e le tazze sul comodino della loro cameretta e sigillato la porta della cucina per impedire che il monossido di carbonio li raggiungesse.
La scrittrice americana ha trentun anni e da appena un mese è uscito, con lo pseudonimo di Victoria Lucas, il suo romanzo "La campana di vetro": una sorta di febbrile ricognizione autobiografica, un album di immagini che la "finzione" letteraria non altera, ma arricchisce: la provincia, l'approdo a New York, gli amici, il 'college', i primi contatti col mondo del giornalismo e della cultura, le amicizie, gli amoreggiamenti, il sentimento e il sesso, e, ancora, brucianti scoperte, sanguinose violenze, cupi deliri.
Autobiografica è anche l'opera poetica di Sylvia, che Mondadori pubblica integralmente negli Oscar ("Tutte le poesie", a cura di A. Ravano, testo inglese a fronte, LXIV-870 pp., euro 18), mentre Via del Vento ne offre una significativa selezione ("La luna e il tasso", a cura di P. Mattei, euro 4). L'editore Castelvecchi propone invece un compiuto profilo della donna e dell'artista, in cui ogni documento viene compulsato con complice attenzione (Linda Wagner-Martin, "Sylvia Plath", pp.229, euro 22). E non senza un atteggiamento polemico nei confronti di chi- il marito di Sylvia, Ted Hughes, anche lui prestigioso poeta- non seppe porre un argine di affetti alla fragilità emotiva della moglie e non fu neanche un fedele curatore dei suoi scritti : si pensi agli interventi censori operati sui "Diari" (Adelphi, 2004).
Un rapporto intenso, teso, dalle profonde sfaccettature, ben descritto nel saggio «Suo marito. Ted Hughes & Sylvia Plath. Ritratto di un matrimonio», di Diane W. Middlebrook, Mondadori, 22 euro, 383 pagine.
Una poesia "confessionale" quella della Plath? Proprio così. Parole che raccontano e svelano, affollandosi sulla pagina bianca nell'ansia di riempirla con il tumulto della vita.
Chediamo ancora: questo diario palpitante toglie qualcosa alla originalità dell'invenzione? E ripetiamo: "no", perché ciò che è originale attinge all'"origine", dunque è intimamente nostro e, diventando scrittura, non può se non rivelarsi dolorosamente personale. Ed evidenziarsi come contrassegno di una generazione: non a caso, la "poetica" della Plath è stata frequentemente paragonata a quella di Jerome David Salinger, l'autore de "Il giovane Holden".
Ecco, che cosa "appartiene" da subito a Sylvia, che cosa la "segna" da quando, ad otto anni, incomincia a scrivere i primi versi? L'immagine protettiva della famiglia: il babbo Otto e la mamma Aurelia Schober, di origine tedesca ed emigrati negli Stati Uniti, che vogliono tanto bene a lei e al fratello Warren. La casa dei nonni nel Wisconsin, affacciata sull'Oceano e aperta a quel mistero del mare che chiede parole per essere cantato nella sua dismisura.
Poi, la bufera. La morte del padre, il grande professore, venerato da moglie e figli: un "monumento" distrutto. La "malattia" è il diabete mellito non individuato da una diagnosi errata, ma il "male" è più "oscuro: è un cataclisma che tutto sconvolge. Aurelia vorrebbe tenere al riparo i figli da quel turbine, ma Sylvia si ribella alle inerti consolazioni. Ce l'ha col padre che se n'è andato via, ce l'ha con la madre e con i suoi patetici cerimoniali "borghesi", che pure la influenzaranno sempre. In lotta con un "doppio" che la fa sentire in colpa, anela alla libertà e a uno spregiudicato anticonformismo, lontano dall'immagine canonica della brava ragazza yankee anni '50, che rinuncia alla propria realizzazzione per consacrarsi al marito, ai figli, alle torte di mele. Lei non vuol vivere in un'ombra "adorante", vuol brillare di luce propria. Al diavolo dunque le premure materne e il ricordo del padre, un "colosso" (come lo definisce in un poesia del 1959), sì, ma di egoismo.
La poesia, certo, offre occasioni liberatrici. Ma, affinando la sensibilità, già esposta a tutte le correnti, non può evitare il corto circuito alla psiche in sofferenza: e questo, per Sylvia, significa depressione, trattamenti elettroconvulsivi, tentativi di suicidio. Con due possibili ancore: una psicanalista che veda e provveda; un uomo che ti desideri, ti capisca, ti ascolti. Un marito: Ted Hughes, un poeta inglese per la poetessa americana. E allora via, a Londra. Basta? Pare proprio di no. Fuoco e gelo continuano a darsi il cambio, squassando l'anima di Sylvia. Il vecchio mal di vivere, il pesante velo nero della "noia". I figli non ti bastano e certe volte sono un peso, e non ti puoi aggrappare all'affetto coniugale che vacilla. Ted si innamora di un'altra donna, Assia Wevil. La poesia non salva dal deserto che cresce ma evoca ulteriori, invalicabili solitudini.
"Mi resi conto che il fiume nero della mia gioventù sarebbe rimasto con me per sempre", aveva scritto Sylvia, sedicenne, nel suo racconto "Il margine".
Quasi un vaticinio.
Mario Bernardi Guardi
Commenti
Posta un commento